Dal 1813 fu arciprete della Pieve di Coste di Maser, e fu veramente contento dell’assegnazione, tanto che scrisse ad un amico: “…cambio una pieve di quattro mila anime con una di sette cento; sicchè vedete che io sono in grado di godere quella quiete, nel cui seno io bramava di terminare i miei giorni…”. A Coste trovò la canonica nel massimo disordine, ed egli la voleva bella, ampia, ridente: restaurò ed adornò la nuova abitazione, la cinse tutt’intorno di fiori e di piante da frutto. Da allora in poi si diede ai piaceri della mensa, e ai suoi studi diletti, più che alla cura delle anime.
Fu poeta arcadico, attivo nei più prestigiosi circoli letterari dell’epoca, fine traduttore dall’inglese e dal greco, accademico, impegnato in politica.
Dalle sue opere traspare la personalità di un uomo poliedrico, colto, sensibile, amante della vita e dell’amicizia.
Presso la Biblioteca civica di Maser è conservata un'importante raccolta di antiche edizioni dell'Abate, costituenti il "Fondo Antico Angelo Dalmistro".
DALMISTRO, Angelo
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)
di Rosalba Galvagno
Nacque a Murano (Venezia), nella calle di S. Bernardo, il 9 ott. 1754, da Bartolomeo e Domenica Morasso originari di Maniago nel Friuli, trasferitisi nell'isola di Murano per esercitarvi l'arte vetraria. Ultimo di quattro figli, non ebbe mai a vergognarsi della sua umile origine che cantò in versi di affettuosa tenerezza: "... l'ignobil culla, la casipola umile in la callaja Di san Bernardo, de' suoi primi conscia Vagiti, e in un la suppellettil corta, / E le fornaci di Murano ardenti, / Che il polmone abbronzaro al padre suo" (Epistola al co. Alfonso Belgrado, in G. Veludo, Scelta..., I, pp. 154 s.). Iniziati gli studi privatamente per intraprendere, secondo il desiderio dei suoi, la carriera di speziale, entrò successivamente, all'età di quindici anni (1769), nel collegio muranese di S. Lorenzo per seguire invece la sua vocazione al sacerdozio. Passò poi nel 1774, in seguito alla soppressione delle scuole gesuitiche, nelle nuove scuole laiche dove poté seguire i corsi di eloquenza di Ubaldo Bregolini e dove conobbe Gaspare Gozzi che visitava di tanto in tanto il collegio quale prefetto degli studi. Tale incontro e l'amicizia che ne seguì furono decisivi nella vita intellettuale e letteraria del D.: Gozzi divenne infatti il suo padre e maestro ideale.
Finiti gli studi, fu costretto dalla sua non florida condizione economica all'umile attività di correttore nella stamperia di Antonio Zatta e di precettore nelle case patrizie, attività quest'ultima che gli permise l'accesso all'aristocratica e decadente società veneziana di fine Settecento. Fece parte così insieme a Marina Benzon, all'ancor giovinetto Ugo Foscolo, e ad altri generali, frati, gentildonne, preti veneziani e forestieri, dei più assidui frequentatori del Casino, animato a S. Moisè in Corte Contarina dall'aggraziata Giustina Renier Michiel. Con essa il D. instaurò un tenero rapporto di amicizia, prolungatosi in epistolare corrispondenza, improntato seimpre al più sorvegliato platonismo.
Nel 1781 fu chiamato dalla nobile famiglia Trieste ad Asolo, luogo d'incontro a quel tempo di uomini nobili e di cultura. Vi rimase fino al 1782, anno della morte del padre e del suo conseguente ritorno a Venezia. Dal 1788 al 1795 insegnò belle lettere nel collegio muranese di S. Cipriano dove ebbe discepoli il Dal Negro, il Bettio e il Foscolo. Intorno al 1795 assecondò l'offerta del doge Lodovico Manin, del beneficio di Maser, intraprendendo in tal modo, piuttosto a malincuore, la carriera parrocchiale.
Nelle lettere di questo periodo indirizzate agli amici si trovano numerosi cenni di amarezza e di mal tollerata rassegnazione, insieme a disappunto e desolazione, accresciuti dall'avanzata dei Francesi che dovevano affrettare la rovina della Repubblica veneta.
Passò nel 1805 alla cura di Martellago, dopo aver ottenuto dai Manin che nel beneficio di Maser subentrasse un suo fratello sacerdote. Nella nuova sede trovò il tempo di dedicarsi ai suoi amati studi rinfocolando così quel desiderio, non del tutto spento, di una vita più libera e dedita alle lettere. E nonostante si rivolgesse all'amica Giustina per una sistemazione più consona alla sua indole, ne ottenne soltanto l'elezione a delegato pel ministero del Culto. Nel 1807 il vescovo di Treviso Bernardino Marin lo chiamò a reggere la chiesa prepositurale di Montebelluna, e al novello preposto il principe duca Cintiano Francesco Sforza conferiva nel 1808 anche il titolo di protonotario apostolico, titolo sul quale il D. mantenne per modestia il segreto (cfr. A. Serena, Sulla vita..., p. 15). Ma, grandi gli onori e misera la prebenda, si accinse a domandare l'investitura di un canonicato di collazione della nobile famiglia Contarini e ad impetrare presso il governo un aumento alle sue rendite. Ma l'esito di queste iniziative fu sfavorevole e non gli rimase che rivolgersi alla Curia la quale anch'essa non volle o non poté aiutarlo.
Gradita e confortevole gli fu allora l'amicizia di Lucrezia Mangilli Valmarana che spesso accoglieva il D. nella sua villa di Montebelluna insieme al Paravia, al Cicogna e ad A. Guillion; e di Pietro Biagi anch'egli fiero di ospitare l'amico poeta nella lussuosa villa Barbarigo; e di Giovan Battista Contarini, nella cui villa forse venivano letti e applauditi gli arguti Sermoni del D., che avevano come bersaglio il signore del luogo. Ma queste parentesi mondane non lo sottraevano alle angustie che lo tormentavano, rimanendo vivo in lui il desiderio di cambiar vita.
Dopo un tentativo fallito di ottenere un vescovato, si decise pertanto a presentare istanza al direttore generale della Pubblica Istruzione per una cattedra di eloquenza a Treviso che sarebbe stata abbandonata dall'amico Mario Pieri. E nonostante l'insuccesso di quest'altro progetto, continuò sempre a pregare gli amici per un posto di bibliotecario o di storiografo all'università di Padova. Ma non poté essere né vescovo, né professore, né bibliotecario, né storiografo. Fortunatamente in quegli anni era rimasto vacante il beneficio parrocchiale di Coste, assai ricco per quei tempi e desiderato. Il D. domandò d'esserne investito, e il beneficio gli fu concesso nel 1813 nonostante un primo rifiuto del vescovo Marin. Coste sembrò finalmente appagare il desiderio dell'abate di "viver meglio" e "con qualche comodo" (lettera inedita all'avv. Pietro Biagi, da Montebelluna, 22 maggio 1813, in A. Serena, Su la vita..., p. 21). Si dedicò nella sua nuova ed ultima canonica a lavori di restauro e di giardinaggio e fece scrivere sopra l'uscio della sua biblioteca e sul frontone della porta rispettivamente due epigrafi latine emblematiche di tutta la sua esistenza: Otiun sine libris mors et sepoltura est e Me dulcis saturet quies. Poté allora concedersi, fino alla fine dei suoi giorni, un'esistenza più confortevole e adatta alla sua indole, condotta tra i piaceri della mensa e gli amati studi, coadiuvato e alleggerito come fu inoltre, nel ménage domestico, dalla cura della sorella Anna, e, nel governo della parrocchia, da altri familiari, tutti riunitisi attorno a lui. Tale raggiunta serenità gli permise di allontanarsi con tranquillità da Coste per delle puntate autunnali nel suo Friuli e nelle ville delle città vicine: a Pederobba, nella villa del Negri nella quale si recava insieme a Mario Pieri; a Treviso, a Castelfranco, a Padova e a Venezia, a lui sempre la più cara soprattutto per l'accoglienza affettuosa di Giustina Renier Michiel, per la cui morte scrisse un sonetto; di Lucrezia Mangilli Valmarana e del conte Benedetto nel palazzo del quale venivano accolti letterati, pittori, musicisti. Un simpatico scambio di sonetti s'instaurò pure tra il D. e la madre di Lucrezia, Cecilia Pedretti Mangilli. Ma, acciaccato dalla vecchiaia, il D. dovette rinunciare alle piacevoli feste veneziane. Visse gli ultimi due anni infermo, tra tosse e geloni, affettuosamente assistito dal pronipote Giovanni Brussa. Morì in Coste d'Asolo (Treviso) il 26 febbr. 1839.
L'educazione letteraria dei D. fu essenzialmente arcadica e frugoniana. Si formò sulle Lettere Virgiliane e gli Sciolti di tre eccellenti autori di Saverio Bettinelli. Uscito dalle scuole, anch'egli, com'era costume del tempo, si dedicò alla produzione di componimenti occasionali - sonetti, canzoni e poemetti per nozze, per monache, per novelli sacerdoti- collaborando a quelle Raccolte tanto diffuse nel Settecento per cui poté entrare a far parte, col nome di Clarindo Pitoneo, dell'Arcadia alla quale apparteneva anche il Bettinelli col nome di Diodoro Deifico. Di questa prima produzione vale la pena di menzionare un poemetto, La Solitudine (Venezia 1788), dedicato a Maria Guglielmina Style Robinson (figlia del generale Guglielmo che perdette la vita nell'espugnazione di Filadelfia) per la sua monacazione. Si tratta di un poemetto in endecasillabi seguito da stanze, sciolti e sonetti che, pur nella stereotipia e convenzionalità del soggetto trattato - per onorare la vergine abitatrice di solitario albergo, il poeta canta la Solitudine che offre asilo alle anime pure, desiderose di consacrarsi a Dio -, è già una attestazione della capacità del D. di comporre versi, e della sua conoscenza profonda della lingua.
Il D. fu promotore della fondazione dell'Anno poetico, una raccolta compilata per otto anni (1793-1800) e stampata dallo Stella di Venezia, con la quale si volevano offrire al pubblico componimenti inediti di autori viventi. Comparvero così, fra queste poesie inedite, versi del Pindemonte, del Cesarotti, del Vittorelli, del Monti, i primi componimenti del Foscolo, le più belle odi di Parini. Dello stesso D. soltanto pochi componimenti. L'Anno poetico fuanche per il D. una sorta di investimento economico integrativo delle sue scarse finanze, sicché la ricerca di sempre nuovi inediti lo mobilitava sistematicamente alla fine di ogni anno, per ottenere, dietro supplicanti richieste ai suoi amici, componimenti del Frugoni, del Vittorelli, del Cesarotti.
Più interessante ed efficace, ai fini della diffusione della cultura contemporanea e straniera, fu il suo rapporto con le letterature europee, soprattutto inglese, dalla quale tradusse nell'anno 1792 per la Stamperia di Venezia Il Bardo ed i progressi della poesia, odi due di Tommaso Gray, recate in versi italiani da Angelo Dalmistro. Anche questa iniziativa (come le Raccolte) si situa nel costume letterario del tempo concernente le traduzioni dall'inglese (importante lo stimolo suscitato in questo senso dalle traduzioni dell'amico Cesarotti), anche se non si ha certezza, quanto al D., che egli traducesse direttamente dall'inglese. Per il Bardo ebbe comunque le lodi del Foscolo (Osservazioni critiche sulla traduzione italiana di un'ode di Tommaso Gray, in Opere, [ed. naz], VI, pp. 709-715) che la antepose addirittura, quanto alla resa linguistica e stilistica, alla traduzione successiva di G. Berchet. Nel 1794 il Palese di Venezia pubblicò coi suoi tipi altre Versioni dall'inglese raccolte e date in luce da Angelo Dalmistro, delle quali fanno parte, oltre al riedito Bardo dello stesso D., l'Elegia di T. Gray tradotta dal Torelli; il Canto notturno di Th. Parnell tradotto dal Mazza; l'inno all'Oceano di E. Young tradotto da M. Colombo; due brani del Paradiso perduto di J. Milton tradotti dal Pindemonte. Molti anni dopo il D. tradusse da A. Pope, o da qualche traduttore del Pope, l'egloga sacra sul Messia (Bassano, 1823).
Se aderì in modo un po' acritico e conformistico alle mode letterarie del tempo, si accostò con infaticabile e vorace passione versificatoria a un genere di scrittura, anch'esso già codificato, ma con aperture e innovazioni significative rispetto alla tradizione arcadica su cui il D. si era formato: il sermone, genere satirico nel quale egli si cimentò con successo e, non a caso, in seguito al simpatetico rapporto devotamente e pedagogicamente" filiale con Gaspare Gozzi, suo vero maitre e padre intellettuale. Tale rapporto, affettivo e intellettuale insieme, marca significativamente la biografia reale e culturale del D. fino a fargli curare in più redazioni, morto il maestro, l'edizione completa delle Opere del conte (Voll. 12 Venezia 1794; voll. 16, Venezia 1818-1820, con una prefazione e con quella Vita del Gozzi che il D. aveva già inserito fra le sessanta di Illustri italiani, Padova 1812; Lettere familiari, voll. 2, Venezia 1808, ristampate sempre a Venezia nel 1823), redazioni perseguite col più accanito scrupolo filologico e con esaustivo reperimento degli inediti e scritti minori gozziani. Sulla scia dunque del suo più autentico maestro, il D. abbandonò il Cesarotti, e compose prima Elogi ed Orazioni per illustri personaggi; degno di menzione nel genere di questi componimenti è l'Elogio di Teofilo Folengo o Merlino Coccajo scritto per essere inviato all'Accademia di Mantova che bandiva nel 1793 un premio per chi presentasse il miglior elogio del Folenge. Lodato dal Pindemonte, dal Cesarotti e dalla stessa Accademia, il componimento del D. non ottenne tuttavia il premio. Più significativi i Sermoni oraziani, lodati anche allora e giudicati con tanto favore dal Pindemonte e dal Vannetti. Ma ancor prima della competitiva imitazione sermonesca col maestro, aveva celebrato le nozze di alcuni patrizi con quegli Epitalami "che alla povertà del contenuto mitologico supplivano benissimo con la squisita eleganza della forma" secondo il giudizio del Serena (op. cit., p. 44), e che provocarono non poco scandalo se addirittura la censura vietò la stampa di uno di essi (Epitalamio per le nozze di Giovanni Corraro e Adriana Zeno, cfr. A. Serena, op. cit., pp. 44-47). Particolarmente gradevole risulta ancora oggi la lettura delle Veglie d'Imeneo, epitalamio pubblicato a Venezia nel 1802 per le nozze Michiel-Pisani: lodando "le greche tondeggianti forme" della sposa, che "CANOVA, italo Fidia, italo Apelle, / Talor disegna...", il D. esalta all'interno di una cornice neoclassica raffinata ed elegante, mediante le invocazioni a Venere, Imene, Cupido, l'eros coniugale e il principio di piacere solo se generatore di prole sana e numerosa.
L'imitazione del Gozzi già avviata con Elogi, Orazioni, Epitalami, portò ben presto il D. a cimentarsi su un terreno assai più difficile: quello satirico-oraziano dei Sermoni. Nonostante rimangano insuperati il garbo e l'eleganza della scrittura imitata, non possono essere lesinate lodi al D. che seppe fare del modello gozziano una traduzione e una ripetizione assai personali e dignitose. I Sermoni, più di venti e dagli argomenti vari e molteplici - i poetucoli delle Raccolte, le dame frivole e galanti, i detrattori di Dante, i preti corrotti, i romantici insani, gli studenti scioperati, i predicatori commedianti, i cicisbei, i bibliofili, i nobili decaduti - datano dal 1795 fino quasi agli ultimi anni di vita del Dalmistro. Forse tra i primi è quello indirizzato all'abate S. Bettinelli, scritto tra il 1795 e il 1808 (anno in cui il Bettinelli morì) e pubblicato la prima volta nel 1831 a Padova per le nozze Zara-Piazza e la seconda volta nelle Opere raccolte dal Veludo. L'argomento è autobiografico, come del resto quello di tutti gli altri Sermoni:una quotidianità laboriosa segnata sempre dalla frustrazione per una mancata realizzazione di letterato a tempo pieno. Un anno assai fecondo fu il 1806 durante il quale ben cinque Sermoni videro la luce, tra cui due vanno segnalati per l'affiorare di alcuni temi ricorrenti nella satira del D.: la rimemorazione del tempo trascorso tra gli studi e il piacere della buona tavola sempre sobrio e controllato (Sermone composto per l'ingresso di Monsignor Cavenezia penitenziere della cattedrale di Treviso, Venezia 1806); e la polemica contro l'arroganza dei nuovi poetastri come Mevio che per essere ricco, nobile e presuntuoso si crede poeta e, per di più, superiore al Sannazaro, al Tasso, all'Ariosto (Sermone diretto al cavalier Ippolito Pindemonte, pubblicato, con l'Epistola intorno alla lingua italiana, Venezia 1821). Da non dimenticare La bibliofilia (Sermone indirizzato a Giovanni De Bizzarro, Padova 1808), testo significativo per l'ipostatizzazione del Buongusto (Nivangio, anagramma di Giovanni De Bizzarro, da bibliofilo appassionato, va in cerca di libri antichi e moderni guidato dal Buongusto) e la polemica contro i sentimentali (il bersaglio è il Werther) in difesa dei classici, tra cui colloca tuttavia contraddittoriamente, per motivazioni affettive, l'Ortis.
Accanto ai Sermoni bisogna porre la composizione di alcune Epistole, tra cui: il Guazzabuglio politico in biasimo della villa (pubblicato dapprima per le nozze di Giuseppe Bolzon, avvocato di Asolo, con Teresa De Martini di Crespano; ripubblicato nel 1817 dal Baseggio di Bassano e nel 1818 dal Picotti di Venezia); L'Epistola al conte Alfonso Belgrado (scritta nel 1806 ma pubblicata nel 1824 col nome di Agnolo De Fasci), nella quale il D. si raccomanda al suo destinatario perché gli procuri un cappellano ideale.
Molto ricca è anche la produzione minore del D. che si cimentò con maestria in numerosi altri generi in voga al suo tempo. Come poeta napoleonico pubblicò nel 1810 coi tipi del Picotti di Venezia Il Puro omaggio a Napoleone il Grande che contiene trentadue sonetti e due discorsi parrocchiali sulla coscrizione (nel 1812 fu aggiunto un terzo discorso). Non appena pubblicato, il D. lo mandò in dono, con una lettera affettuosissima, al suo beneamato Foscolo, il quale rispose con altrettanto affetto al suo antico maestro, non trascurando tuttavia di ribadire la sua preferenza per i moderni soprattutto stranieri, e non più per i logori canzonieri e sonetti (lettera del 5 giugno 1810 in Opere, [ediz. nazion.], XVI, Firenze 1953, pp. 392 s.). Sulla scia della tradizione bernesca egli partecipò alla composizione dei poema collettivo in dodici canti l'Esopo (Venezia 1828), del quale svolse il primo canto lodato dal Tommaseo (Dizionario estetico, 3 ed., II, Milano 1860, p. 93) e non privo di arguzia e autentica comicità. Come poeta didascalico compose La coltivazione del fico, poemetto in due parti (Padova 1830), in versi sciolti elegantissimi. Di argomento biblico sono i due idilli (di cui il primo pubblicato già nel 1820 nella Raccolta poetica per monsignor C. Ciani vescovo di Concordia) pubblicati fra le Poesie inedite di argomento sacro degli Accademici Filoglotti di Castelfranco col titolo La Spigolistra fortunata, idillj due, tratti dal sacro libro di Ruth per l'ab. Angelo Dalmistro (Padova 1823). Nel 1819 il D. pubblicò nelle Memorie scientifiche e letterarie dell'Ateneo di Treviso (II, Venezia) una Epistola intorno alla lingua italiana dedicata al professor G. B. Marzari presidente dell'Ateneo di Treviso e committente dell'opera. L'Epistola fu ristampata nel 1821 a Venezia, con qualche variante - la ritrattazione soprattutto della critica nei confronti del padre Cesari - per via del vespaio di polemiche suscitato dalla prima stampa, e alcune aggiunte: un discorso preliminare, tre Sermoni al Tomitano, al Pindemonte, all'Oliva, e una Lettera del Signor Francesco Amalteo all'arciprete A. D. sopra il Decamerone del Boccaccio guasto in più luoghi. Di questa seconda edizione rimasero ancora scontenti i cruscanti ma non più il Celari che anzi lodò il D. come valente conoscitor dei classici latini. Il D., cultore appassionato di Dante, - anche in questo caso gli fu maestro il Gozzi - compose una Sposizione succinta d'ogni canto dell'Inferno e dei primi XX del Purgatorio (Padova 1828) allo scopo di distogliere i giovani dall'imitazione dannosa delle romantiche follie, e spingerli invece allo studio e all'imitazione di Dante. Non prive di garbo sono alcune novelle tra cui I due medici pubblicata tra le Novelle inedite, a cura di B. Gamba, I, Roma 1824, pp. 35-44. Tra gli ultimi versi composti dal D. la raccolta Lagrime (Padova, 1830), preceduta da una Epistola al Bernardi e da una serie di ventiquattro sonetti composti in memoria di Giuseppe Monico, fondatore e direttore del Giornale sulle scienze e lettere delle provincie venete, per il quale il D. nutrì una profonda amicizia.
Feconda anche l'attività di traduttore dal latino: delle satire ed elegie latine di Ubaldo Bregolini, suo maestro d'eloquenza, delle egloghe ed elegie dei fratelli Amalteo. Altre cose tradusse d'argomento sacro, per offrirle a vescovi -o sacerdoti novelli tra cui: i Salmi penitenziali del Petrarca (Treviso 1825); il carme d'Ausonio Sulla vita umana (in Giorn. delle prov. venete, 1823); l'inno callimacheo il Lavacro di Pallade eseguito sulle orme della precedente traduzione del Poliziano (Padova 1828); e, nelle Opere raccolte dal Veludo, si possono ancora leggere quasi tutta la satira sesta di Giovenale, l'elegia di Catullo sulla Chioma di Berenice e le prime due egloghe di Virgilio.